di: Vincenzo Morena
In tema di responsabilità colposa per le morti provocate dall'amianto sui posti di lavoro, laddove sia impossibile individuare il momento di innesco irreversibile del mesotelioma - ed essendo causalmente irrilevante ogni esposizione successiva a tale momento -, ai fini del riconoscimento della responsabilità dell'imputato è necessaria l'integrale, o quasi integrale, sovrapposizione temporale tra la durata dell'attività della singola vittima e la durata della posizione di garanzia rivestita dall'imputato nei confronti della stessa.
Tale è l'interessante principio che viene enucleato dalla sentenza della Corte di Cassazione (quarta sez. penale) n. 12151/20, depositata mercoledì, chiamata a giudicare il ricorso proposto dai legali rappresentanti di una società, condannati per la mancata adozione di precauzioni atte a prevenire l'insorgenza del tumore pleurico nell'ambiente lavorativo.
Il giudizio trae origine dalla malattia per mesotelioma di una dipendente del reparto di decoibentazione dell’azienda; l’infortunio era avvenuto perché la donna aveva respirato, per periodi prolungati, massicce dosi di polveri di amianto, non essendo, peraltro, presenti in azienda (nei primi anni del rapporto di lavoro) impianti di aspirazione delle microparticelle cancerogene.
Gli Ermellini, nel ricondurre il collegamento causale tra esposizione ad asbesto e morte del lavoratore per mesotelioma a un giudizio sostanzialmente individuale (in quanto verificato in relazione alla singola vicenda), e nell’escludere il riferimento alla teoria del c.d. “effetto acceleratore” (la protrazione dell’esposizione ad amianto dopo l’inizio del processo di cancerogenesi è in grado di accelerarne l’evoluzione verso la malattia conclamata e, quindi, verso la morte), confermano la responsabilità dei titolari dell’azienda, chiarendo che l'adempimento tardivo nella adozione delle misure di tutela non è prevalente rispetto alla gravità della condotta precedente al verificarsi della malattia.
Tale è l'interessante principio che viene enucleato dalla sentenza della Corte di Cassazione (quarta sez. penale) n. 12151/20, depositata mercoledì, chiamata a giudicare il ricorso proposto dai legali rappresentanti di una società, condannati per la mancata adozione di precauzioni atte a prevenire l'insorgenza del tumore pleurico nell'ambiente lavorativo.
Il giudizio trae origine dalla malattia per mesotelioma di una dipendente del reparto di decoibentazione dell’azienda; l’infortunio era avvenuto perché la donna aveva respirato, per periodi prolungati, massicce dosi di polveri di amianto, non essendo, peraltro, presenti in azienda (nei primi anni del rapporto di lavoro) impianti di aspirazione delle microparticelle cancerogene.
Gli Ermellini, nel ricondurre il collegamento causale tra esposizione ad asbesto e morte del lavoratore per mesotelioma a un giudizio sostanzialmente individuale (in quanto verificato in relazione alla singola vicenda), e nell’escludere il riferimento alla teoria del c.d. “effetto acceleratore” (la protrazione dell’esposizione ad amianto dopo l’inizio del processo di cancerogenesi è in grado di accelerarne l’evoluzione verso la malattia conclamata e, quindi, verso la morte), confermano la responsabilità dei titolari dell’azienda, chiarendo che l'adempimento tardivo nella adozione delle misure di tutela non è prevalente rispetto alla gravità della condotta precedente al verificarsi della malattia.