La nozione di rifiuto è incentrata sulla volontà del detentore della cosa: “è rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”, dice infatti l’articolo 183, comma 1 lett a) TUA.
In un tale contesto normativo che, salva la residuale ipotesi di obbligo normativo di disfarsi di una cosa, rimette la qualificazione giuridica alla volontà del soggetto, è inevitabile che possano derivare incomprensioni e qualche difficoltà interpretativa.
Tizio costituisce un’impresa che raccoglie pezzi di ricambio usati di autoveicoli, anche provenienti da altri Paesi, e li spedisce all’estero. Normale commercio di prodotti oppure gestione di rifiuti?
La Suprema Corte, con la sentenza della terza sezione penale, n. 8968 del 2 marzo 2023 ha ritenuto che si versasse in quest’ultimo caso e, perciò, ha confermato la condanna dell’imputato per i reati di illecita gestione (art. 256) e spedizione illecita di rifiuti (art. 259).
La difesa dell’imputato si è incentrata sul fatto che i ricambi non erano “rifiuti”, in quanto egli aveva intenzione di farne commercio e non già di disfarsene.
L’ingorgo interpretativo è quindi evidente: come si può affermare la natura di rifiuto di un bene che, invece, per la volontà del suo detentore è finalizzata al commercio?